Honduras “Denuncio lo Stato!”

Dirigente contadino accusa le autorità honduregne per averlo incarcerato per più di sette anni senza uno straccio di prova

Managua, 22 marzo (LINyM) -.

José Isabel Morales, conosciuto come “Chabelo”, ha passato quasi sette anni in carcere, accusato ingiustamente di delitti che non ha mai commesso. Ha subito tre processi basati sul nulla. In carcere è stato aggredito, minacciato di morte, ha perso un occhio e non gli è stato permesso di assistere ai funerali di suo padre e di sua figlia.
Membro del  Movimiento Contadino dell’Aguán (MCA) si è dichiarato fin dall’inizio prigioniero politico ed ha combattutto affinché trionfasse la verità. La solidarietà nazionale e internazionale lo ha accompagnato costantemente durante i processi a cui è stato sottoposto e nel maggio scorso, il massimo organo di giustizia honduregno ha riconosciuto la sua innocenza.
È stato quindi rilasciato e ha ricevuto la sua “carta de libertad” definitiva, il documento che oltre ad autorizzare la scarcerazione sancisce la sua piena e totale innocenza per i reati che gli erano stati attribuiti.
Chabelo ha finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo e ora ha deciso di denunciare lo Stato alla Corte interamericana dei diritti umani, Cidh, per i soprusi subiti.
Sia per il dipartimento legale del Gruppo di riflessione, ricerca e comunicazione, Eric, che per la Clinica legale per i diritti umani dell’Università di Los Angeles, si tratta di un caso emblematico che mette a nudo le debolezze del sistema di giustizia honduregno “che solo attacca gli indifesi”.

Con la denuncia alla Cidh, i legali di Chabelo vogliono obbligare lo Stato a impegnarsi di fronte alla comunità internazionale a correggere le lacune esistenti nel sistema di giustizia e combattere l’impunità che dilaga in Honduras. “Mi hanno accusato per un delitto che non ho mai commesso e hanno violato tutti i miei diritti. Lo Stato è colpevole per avermi imprigionato e per avere umiliato me e la mia famiglia”, ha detto Chabelo durante una conferenza stampa.
A maggio dello scorso anno, poche ore dopo avere ricevuto la sua “carta de libertad”, il dirigente contadino aveva conversato con la LINyM.
A continuazione riproponiamo quell’intervista (“El Estado me robó siete años de mi vida”)

Lo Stato mi ha rubato sette anni di vita
Prigioniero politico finalmente libero dopo un interminabile calvario di ingiustizie e soprusi
Il 9 maggio 2016, il dirigente contadino e prigioniero politico José Isabel Morales “Chabelo” ha ricevuto la sua “carta de libertad”. In questo modo, il sistema di giustizia honduregno mette fine a una delle pagine più vergognose e tristi della sua storia.
Il 21 ottobre del 2015, dopo aver trascorso quasi sette anni in carcere per un crimine che non ha commesso, José Isabel Morales, noto come “Chabelo”, è stato prosciolto da tutte le accuse. Membro del Movimento Contadino dell’Aguán (MCA) della comunità Guadalupe Carney, Chabelo era stato arrestato il 17 ottobre 2008 e successivamente condannato a 20 anni di carcere.
La Corte suprema aveva alla fine ribaltato l’esito delle sentenze dei primi due gradi di giudizio  per “ripetute violazioni dei principi del giusto processo”. Il terzo processo è iniziato il 28 settembre 2015 e Chabelo è stato assolto per mancanza di prove: nessun testimone dell’accusa si è presentato in tribunale.

Ingranaggi ben oliati

I tragici eventi di cui Chabelo è stato incolpato sono avvenuti all’interno di un conflitto per la terra che ha coinvolto contadini organizzati della comunità Guadalupe Carney e la famiglia dell’ex vice commissario della polizia preventiva Henry Osorto Canales, con legami importanti sia con le più alte cariche della Polizia che con i principali organi di giustizia.
Questi legami hanno permesso che Morales fosse sottoposto a processi viziati, con testimoni falsi e senza prove, e che passasse quasi sette anni in carcere dove ha sofferto forme multiple di violenza, che gli hanno provocato gravi danni fisici e psicologici. Durante il suo calvario, Chabelo ha perso il padre, la figlia più piccola e anche la vista da un occhio.
Durante gli scontri apparentemente avvenuti tra persone del MCA e famigliari di Osorto era scoppiato un incendio nel quale avevano perso la vita persone legate all’ex vice commissario.
Chabelo, che al momeno dell’incendio nemmeno si trovava sul posto, era stato accusato di 12 omicidi – tra cui quello di Carlos Manrique Osorto Castillo, nipote dell’ex vice commissario – incendio di auto e furto. Con il passare del tempo, il fragile castello di menzogne aveva cominciato a sgretolarsi e le accuse erano cadute una dopo l’altra.

Solidarietà

Fin dal primo momento Chabelo ha ricevuto la solidarietà e il sostegno di decine di organizzazioni sociali e popolari dentro e fuori dal Paese. Centinaia di persone sono rimaste in contatto con lui e lo hanno accompagnato durante questi difficili anni. Hanno promosso e lanciato campagne di solidarietà e di denuncia internazionale, esigendo il suo rilascio e denunciando la natura politica della sua detenzione, nonché la violazione delle garanzie procedurali stabilite dalla Costituzione della Repubblica e dal Codice penale.
La valle del Aguán, zona in cui si sono svolti i fatti, è stata per decenni al centro di un sanguinoso conflitto agrario scaturito dall’acaparramento delle terre da parte di pochi e ingordi latifondisti specializzati nella coltivazione della palma africana (palma da olio). Migliaia di famiglie contadine hanno iniziato un processo di “recuperazione” delle terre che facevano parte della riforma agraria degli anni 60. Dopo il colpo di Stato del 2009, la situazione è precipitata e decine di contadini organizzati sono stati assassinati e altri centinaia sono sotto processo. La storia di Chabelo e del MCA fa parte di questo contesto di repressione e morte.
Adesso che ha ricevuto la sua “carta de libertad”, Chabelo sente che è giunto il momento di tornare a vivere, di riannodare i fili di una storia interrotta. Non può, né vuole dimenticare. “Lo Stato mi ha rubato sette anni di vita. È giunto il momento di assumersi le sue responsabilità”, ha detto durante un’intervista con LINyM.

-Le hanno tolto sette anni di vita. Che cosa prova in questo momento che è nuovamente libero?

-Da una parte sono molto felice, mi sento libero, posso stare finalmente con le persone a cui voglio bene e che non mi hanno mai fatto mancare il loro affetto e la loro solidarietà. Se non fosse stato per la solidarietà e per le persone che hanno combattuto per la mia liberazione chissà cosa sarebbe successo e dove sarei oggi.
D’altra parte, però, sento qualcosa nel mio cuore che non è facile da spiegare. Quello che mi hanno fatto le istituzioni è tremendo, soprattutto la procura della Repubblica. Ciò che hanno fatto non solo a me, ma anche alla mia famiglia e a tutta la gente che mi è stata vicina fa ancora molto male.

-Che cosa le manca di più di questi sette anni?

-Mi mancano mio padre e mia figlia. Sono morti e non mi hanno nemmeno permesso di dirgli addio. Mi manca il mio viso di prima, il mio occhio che ho perso in carcere. Mi manca tutto questo tempo che il sistema giudiziario e lo Stato mi hanno ingiustamente tolto. Sono loro i colpevoli.

-Si è mai chiesto perché l’abbiano fatto?

-Molte volte. Non ho mai ucciso nessuno, né durante la mia vita ho fatto del male all’ex commissario Osorto o alla sua famiglia. È venuto cinque volte in prigione e chiedeva di me, chiedeva quale fosse la mia cella. Una volta ci siamo addirittura incrociati e non mi ha nemmeno riconosciuto. Come faceva ad accusarmi se neanche sapeva che faccia avessi?

Perché tutto questo odio, allora?

-Durante gli scontri sono morti alcuni parenti di Osorto. Magari ha voluto trovare un colpevole a tutti i costi e si è vendicato così. Io intanto ho vissuto sette anni di inferno senza avere fatto niente.

-C’è qualcosa che salva di questo inferno?

-Credo di sì e avrò ancora bisogno della solidarietà di tutta quella gente che mi è stata vicina. È giunta l’ora che lo Stato si assuma le proprie responsabilità per tutto questo tempo che mi è stato sottratto, per quello che è successo alla mia faccia, per le continue violazioni ai miei diritti, per il tentato omicidio, per la morte di mio padre e di mia figlia. Lo Stato deve pagare per tutto questo.

-¿Sta pensando di far causa allo Stato?

-Sí, farò causa.

-Si è sentito un “prigioniero politico”?

-Sono stato un prigioniero politico perché lo Stato mi ha privato della libertà senza avere la benché minima prova, usando falsi testimoni e false testimonianze, strappandomi alla mia vita. Le istituzioni dello Stato hanno cospirato per rinchiudermi in galera. Io sono una vittima dello Stato.

-Come si sente adesso?

– Sono molto felice e posso finalmente stare in santa pace con le persone che mi sono state vicine, che non mi hanno mai abbandonato e che sono venute qui a condividere la loro esperienza con la nostra comunità, con la gente che continua a soffrire. Sono contento per la mia “carta de libertad”, per mia madre, per la mia famiglia, per tutti coloro che hanno combattuto per me. Anche se non ci sono più, ho finalmente potuto dire addio a mio padre e a mia figlia. Sono andato al cimitero, ho pulito le loro tombe, io ero con loro, ho messo i fiori. Sto tornando a vivere.