NICA ACT 2017

NICA ACT 2017: DI GUERRA FREDDA 2.0
E RINNOVATI COLONIALISMI

Evoca qualcosa di grottesco, drammaticamente grottesco, il cosiddetto “Nica Act” emesso dalla neo amministrazione statunitense poche settimane or sono. Accompagnato e sostenuto da una “insolita” spalla come il Washington Post, il provvedimento mira a congelare qualsiasi tipo di finanziamento a favore del governo del Nicaragua, presieduto dal Comandante Daniel Ortega Saavedra. Il reale motivo, le recenti e sempre più intense collaborazioni con la Russia di Vladimir Putin. Nello specifico, collaborazioni in ambito militare, con addestramenti sul campo e accordi per fornitura di equipaggiamenti, leggeri e pesanti. Ciò che però sembra davvero allarmare i solerti deputati, della destra estrema così come tra i democratici, promotori della iniziativa, è il sistema di posizionamento GLONASS – Global Navigation Satellite System per la sua sigla in inglese –, frutto della tecnologia russa. Un sistema che permetterebbe, nel caso del paese centroamericano, oltre a un maggiore e più perfezionato monitoraggio delle attività commerciali e di tante altre a esse direttamente collegate (distribuzione della energia e traffico marittimo e fluviale, per citarne solo alcune) dare un prezioso contributo in ambito strettamente geofisico. E cioè in caso di catastrofi naturali come alluvioni o eruzioni vulcaniche, eventi per i quali il Nicaragua, come purtroppo tanti altri paesi dell’America Latina, paga troppo spesso un altissimo prezzo in termini di vite umane.

Tra l’altro, di questo sistema se ne avvantaggerebbe anche l’impresa privata, per i benefici economici per l’appunto legati al commercio di cui qualche riga sopra. Il timore che attanaglia il congresso USA, e parte della popolazione, non nasce certo da  tutto ciò; e qui ritorniamo al dramma del grottesco. L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca è stato caratterizzato dagli ambigui rapporti, per usare un eufemismo, che il neo presidente, insieme al suo fidato staff, ha intrattenuto e continua (pare) a intrattenere con la massima dirigenza russa. Sia politica che economica. Cronache recenti riportano spy stories in salsa cibernetica da far impallidire i bei tempi della Guerra Fredda. Squadre super-addestrate di hacker russi che violano siti profili e account di ogni tipo della élite nordamericana per favorire la vittoria del magnate nordamericano. Non è mancato, ovviamente, neanche il coinvolgimento diretto e indiretto di Julian Assange e del “suo” Wikileaks. Dal quale sono venute fuori, per esempio, inequivocabili testimonianze di un ostracismo all’interno del mondo dem nei confronti di Bernie Sanders. Per favorire una Hilary Clinton che in fatto di aggressioni internazionali non ha nulla da invidiare ai più attivi in questo settore delle passate amministrazioni degli Stati Uniti: basti ricordare il colpo di stato ordito in Honduras ai danni di Zelaya e l’avventura neo-colonialista a Bengasi, in Libia. Insomma, un concentrato della politica estera a stelle e strisce che da sempre è stato e continua a essere un riconosciuto brand. Le presunte manovre militari nell’istmo centroamericano solleticano la mai sopita attitudine imperialista degli inquilini della Casa Bianca e dei loro fedeli sodali. Mentre si super-bombarda la Siria, dopo averla portata al massacro finanziando la “opposizione” ad Assad, si riconosce con la stessa disinvoltura il voto referendario dell’amica Turchia dell’amato Erdogan, che continua a perseguitare e massacrare il popolo curdo. E a zittire a suon di violenta  repressione qualsiasi voce, anche la più flebile, osi mettere in discussione il sultano del terzo millennio. Persino la OSCE, un organismo di sicuro non famoso per la solerzia dei suoi interventi, è stata colta da un rossore in volto dopo i risultati del referendum turco. In questo mondo ingarbugliato, e per questo ancor più pericoloso, di relazioni tra Stati che sembrano non rispondere più neanche per una ipocrita questione d’immagine a una logica “diplomatica”, le mire espansionistiche e i propositi d’ingerenza della giunta Trump procedono tranquillamente nel solco tracciato dai suoi predecessori. La Dottrina Monroe non è stato mai riposta nello sgabuzzino della Storia. Anzi, viene riproposta e rimodellata a seconda delle condizioni e dei cambiamenti che il sub-continente non smette mai di generare. E forse è proprio questa ineluttabile attitudine a innervosire nostalgici del filibusterismo e fan scatenati del neo-liberismo e dell’”America first”. L’accerchiamento nei confronti del Venezuela sta lì a dimostrarlo in tutta la sua cristallina drammaticità; e non c’è nulla di grottesco, come nulla di grottesco si può ritrovare nella tragedia siriana e nelle varie guerre sparse per il mondo. L’irresponsabile tentativo di trasferire l’esperienza delle rivoluzioni arancioni (e delle cosiddette primavere arabe), in terra venezuelana, ha scatenato una ondata di violenza che persegue il rovesciamento di un governo democraticamente eletto a vantaggio di una opposizione (che comunque detiene la maggioranza in Parlamento, dittatura bizzarra quella di Maduro) revanscista e decisa a cancellare tutte le conquiste dell’era Chávez. Per ristabilire l’ordine precostituito e riconsegnare le chiavi della città al rappresentante dello Stato più potente del pianeta. Per quanto dunque, lo scenario internazionale presenti una realtà chiara e lineare per quel che riguarda territori da saccheggiare e stati sovrani da rovesciare ma molto meno “comprensibile” rispetto all’atteggiamento e agli scontri/alleanze fra superpotenze o presunte tali, l’America Latina agli occhi della superpotenza del piano di sopra risulta essere ancora un obiettivo strategico secondo i dettami del secolo passato. O forse anche di quello precedente. La gigantesca opportunità commerciale, che sembrava aprirsi in maniera inesorabile agli inizi degli anni 90, con l’applicazione selvaggia dei trattati (cosiddetti) di libero commercio creando un unico mercato dal Canada alla Terra del Fuoco, fu rigettata nel corso degli anni da un blocco determinato di paesi appartenenti a quell’area che poi diede vita all’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA).

Un netto rifiuto, costato lacrime e sangue, non vada dimenticato, che alla voracità imprenditoriale del Nord America non è mai andato giù. L’idea di una autodeterminazione dei popoli al di sotto del Rio Bravo, perseguita da Bolívar dal Che e portata avanti poi da Hugo Chávez, che risolvesse una vexata quaestio di indipendenza economica oltre che politica, non ha mai smesso di urtare la sensibilità delle varie amministrazioni USA succedutesi nel corso degli anni. Anche in questa dimensione, prende forma il NICA ACT 2017, ovverosia un piano d’ingerenza in un paese che dopo una catastrofica parentesi neoliberista di sedici anni, ha ripreso in mano le proprie sorti. Questa volta non con le armi, come per abbattere la dinastia dei Somoza nel 1979, ma con un democratico processo elettorale. Supervisionato da osservatori internazionali che non hanno potuto far altro che decretarne la validità. Con buona pace di una opposizione che a orologeria ne contesta il risultato, tralasciando il  dettaglio che se da quella stessa contesa ne fosse uscita vincitrice, non  l’avrebbe di sicuro messa in discussione.

Questa onestà a geometria variabile la possiamo notare in diversi contesti; da quello Nicaraguense appunto, al più recente caso ecuadoriano, passando per il Venezuela. Il risultato è valido e si accetta solo se si vince. La contundente vittoria della coalizione guidata dall’FSLN, confermando il risultato del 2011, ha però stracciato qualsiasi velleità di mischiare le carte in tavola; un 72% che lascia pochi dubbi.

Questo non significa, ovviamente, che è tutto oro ciò che luccica. O meglio, confondere un rotondo e inoppugnabile successo con il migliore dei mondi e dei sistemi possibili sarebbe un errore imperdonabile; vale per quei popoli in lotta contro un immarcescibile colonialismo come per i movimenti di solidarietà internazionale che li sostengono. Rinunciare, in quest’ultimo caso, alla capacità di leggere le inevitabili contraddizioni, anche quelle più scomode, che altrettanto inevitabilmente s’incontrano in tali processi storici sociali e culturali di immensa portata, arrecherebbe (forse) più danni che il disinteresse più totale. Il protagonismo di un movimento serio di contrasto alle politiche belliciste da qualunque parte provengano, a partire dalle nostre, passa anche per un’analisi attenta e approfondita delle vicende, sempre più tragiche, che contraddistinguono questi nostri sciagurati tempi. La lotta per il rispetto del diritto internazionale e quella dei diritti nel proprio ambito e sul proprio territorio sono l’una linfa dell’altra, e non aridi isolotti sprovvisti di vie di comunicazione. Chissà sarà dovuto anche a questo la quasi totale assenza di una voce forte chiara e unisona di fronte alle tante guerre in giro per il mondo. Quelle guerreggiate così come quelle combattute con armi non convenzionali. Tra queste rientrano anche i fortini di una Europa che incapace di fermare la mattanza da essa stessa co-generata, non riesce nemmeno a far affermare un elementare diritto all’accoglienza. I muri che Trump pianifica per i “suoi” confini, qui in Europa sono già tragica realtà; a volte molto concreti, come in Ungheria, altre volutamente invisibili, come a Ventimiglia.

Il Nica Act è quindi un attentato alla libera espressione di un popolo ancor prima che una mossa deplorevole sullo scacchiere delle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti armarono la Contra durante la guerra al legittimo governo Sandinista negli anni 80 e non si fecero alcun tipo di problema per finanziarla, al punto di vendere sottobanco armi all’Iran. Quello “scandalo”, sanzionato dalla Storia ha goduto invece della immunità giuridica, come si conviene a chi prova a mettersi contro Golia. La Guerra Fredda 2.0 è quindi una suggestiva formula per riaffermare la consolidata prassi di andare in soccorso del più forte. Per imporre un modello di democrazia al passo di carri armati e bombe intelligenti. Il capitalismo, in tutte le sue controverse forme, non tradisce mai le sue origini. È sempre una ricetta nuova con ingredienti ottocenteschi. Il Nicaragua, così come tutti gli altri paesi che non intendono replicare in forma ultra-moderna un passato di conquiste saccheggi e invasioni, vuole invece affermare un diritto inalienabile commettendo un atroce delitto: ha scelto liberamente di essere Nicaragua.  

M.Angelilli.