LE GRANDI OPERE DEL SANDINISMO DEL DUEMILA

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(riflessioni di Massimo Angelilli)

Mentre si discute, spesso a sproposito, della costruzione del Gran Canal Interoceanico, in Nicaragua il processo rivoluzionario ripreso nel 2006 va avanti.
Tra difficoltà e contraddizioni, ma anche con discreti successi.
Il più delle volte sottaciuti dai grandi mezzi di comunicazione – e fin qui nulla di nuovo, purtroppo – e sovente non riconosciuti da alcuni settori della Sinistra che intrappolati nelle proprie scaramucce interne e disorientati alla ricerca di una propria identità preferiscono ancora soffermarsi sulla pagliuzza poiuttosto che concentrarsi sulla trave.
Il III Encuentro Europeo de Solidaridad con la Revolución Popular Sandinista, avuto luogo a Managua a cavallo del 36° Anniversario del Triunfo, ha avuto l’indiscutibile merito di far luce su alcuni significativi temi che stanno a cuore al governo e al popolo nicaraguense così come alla Solidarietà Internazionale.
Vale la pena dire da subito che la parte del leone l’ha fatta il Gran Canal.
Per le legittime perplessità che suscita, e continuerà a suscitare, ma anche per la impostazione “ideologica” che troppo di frequente le caratterizza.
Tuttavia, un involontario sostegno viene offerto dalla evidente carenza di informazione al riguardo. Più precisamente, la estrema difficoltà nel tenere testa alla potenza mediatica esercitata dai grandi gruppi editoriali sul terreno della guerra non guerreggiata più intensa che l’umanità abbia mai conosciuto, e cioè quella della informazione. Per quanto continuino, sappiamo bene, nelle forme più disparate e in più parti del pianeta, scontri armati a uso e consumo della vorace e insaziabile industria della “notizia” e a totale beneficio delle grandi potenze economiche e militari. O presunte tali, come l’Unione Europea. Che sono poi le stesse che determinano il mercato della indignazione, della ripugnanza, della rabbia, del (finto) dolore e dell’interesse a seconda dell’argomento che si è deciso debba avere il titolo di apertura nei giornali telegiornali e nel mare magnum dei social network.

Ucraina, Siria, i vari tentativi di golpe in Venezuela, questione curda, e tutto ciò che  drammaticamente ne consegue, stanno lì a dimostrarlo.

Ciononostante, non può certo questo trasformarsi in alibi. Anzi, dobbiamo continuare ad avere l’obbligo, etico ancorché politico, di arrestare la deriva culturale che sta contraddistinguendo questo scorcio di millennio. Un impegno che aiuterebbe a capire meglio quanto succede nel mondo per comprendere la nostra, di realtà.

Il Nicaragua e l’America Latina non sfuggono da questa  prospettiva. E con loro lo sforzo di donne e uomini che pervicacemente credono che la Storia non è finita. Non si è esaurita con il raggiungimento del benessere diffuso che il capitalismo vuole invece far credere. Quel tipo di benessere rimane ancora una esclusiva dell’1% a scapito del 99% restante. E qua e là per il mondo ci sono tentativi seri e credibili di invertire la tendenza.

E proprio nel momento in cui la “crisi” attanaglia le vite di milioni e milioni di esseri umani.

La crisi altro non è che una variante del plusvalore per aggiungere profitto al profitto, un’arma micidiale per lucrare sulla più redditizia delle condizioni umane che il capitale abbia mai concepito: la povertà.

In Nicaragua, e in tutti i paesi che aderiscono all’ALBA, hanno deciso di sconfiggerla. Ribaltando i canoni che da questa parte dell’Oceano irreparabili danni ha causato e ai quali, purtroppo, siamo spesso abituati.

Luglio è stato infatti anche il mese in cui si è consumata la tragedia greca dello strangolamento socio-economico da parte degli organismi finanziari della UE.

Il popolo greco ha dato lezioni di democrazia non solo all’Europa, ma al mondo intero. Non staremo certo qui ad analizzare, per lo meno nel dettaglio, le dolorose scelte che ha dovuto affrontare il governo guidato da Tsipras.

La lancinante parabola di Syriza. Uno spaccato spietato ma veritiero della sinistra ai tempi della troika. Nessuno, che si riconosca un minimo di onestà intellettuale, può sottrarsi dalla responsabilità di aver lasciato solo un popolo nel momento forse più acuto dello scontro e della disperazione.

Aldilà di ogni legittima considerazione sulle modalità con cui si è portata avanti la trattativa, non siamo stati in grado di mettere su una mobilitazione che fosse stata finanche “solo” di solidarietà con persone in carne e ossa, ancor prima che con una coalizione nell’occhio del ciclone per le critiche e le abiure che piovevano da tutte le parti, e che pochi giorni prima avevamo ammirato per aver avuto il coraggio, in quelle condizioni, di gridare un rotondo NO alle politiche di strozzinaggio europeo che vanno sotto l’intrigante nome di “austerity”.

A Managua, quindi, tutto questo non poteva non essere preso in considerazione. Un movimento (europeo) serio di solidarietà internazionale, e nello specifico con la RPS e l’ALBA, deve interrogarsi sul proprio coefficiente di incisività sulle politiche che da ormai troppi anni stanno infestando le nostre società. Lo dovrebbe fare prima e indipendentemente dal “pericolo” di veder messo in discussione il proprio piccolo spazio di agibilità, retaggio di una solidarietà che fu. Di divisione e frammentazione si muore.

L’Internazionalismo deve riconoscere e riconoscersi in obiettivi comuni che superi una volta per tutte  la presunta “supremazia” culturale dell’occidente, nella quale ci si rimane ancora imprigionati. Non è più così, e si fa ancora fatica ad ammetterlo. Tanto più che in America Latina ciò che balza agli occhi è l’aggiornamento (ammesso che non sia stato sempre attuale) del pensiero gramsciano; la egemonia culturale che porta al consenso.

La rivalutazione della propria identità intesa anche come solido argine al modello occidentale basato sul conseguimento dei bisogni grazie allo sfruttamento. Un latinoamericanismo organico, verrebbe da dire.

La deriva populista e l’avanzamento delle destre proto-fasciste in salsa leghista o ungherese a seconda delle latitudini, lo si deve anche alla sostituzione di un immaginario collettivo con le esigenze retrive dell’individuo. Magistralmente alimentate (anche) dai mezzi di comunicazione di massa. Che sia l’invasione degli immigrati o la crisi economica, poco cambia; la paura rimane sempre il più prolifico bacino elettorale.

In Nicaragua non è tutto rose e fiori, ovviamente. Non bisogna cadere nella trappola dell’esaltazione o del suo contrario, la demonizzazione. Non è il paradiso ma neanche l’inferno, come diceva Eduardo Galeano parlando della Cuba di Fidel.

Ci sono cose in cammino molto interessanti; i programmi sociali, la democrazia partecipativa, la integrazione latinoamericana, il costante aumento di infrastrutture, scuola e sanità gratuita, la straripante partecipazione giovanile. Ve ne sono altre positive come è naturale ve ne siano alcune che non convincono affatto; la questione ancora aperta dell’aborto, un modello economico che ripropone ancora il protagonismo delle solite potenti famiglie, livelli di corruzione e opportunismo politico in alcuni casi molto alti, richiamo alla religiosità che (ci) suona sempre un po’ stonato.

A vederla bene, niente di più e niente di meno rispetto agli standard di qualsiasi altro paese “normale”. Se non fosse che in Nicaragua si persegue un modello autonomo e autentico di socialismo, come è il Sandinismo, e per questo, ciò che in qualsiasi altro paese della sfera capitalista è semplicemente fisiologico e quindi più che legittimo, in questo caso viene sottoposto alla lente d’ingrandimento. Perché ciò che è costituzionale nelle cosiddette democrazie occidentali, nei paesi dell’ALBA è una dittatura.

E attenendosi a questo bizzarro sillogismo, la dittatura di turno ha deciso di costruire un canale interoceanico che procurerà devastazioni ambientali e sociali. Quelle democrazie occidentali tanto amate e ammirate che hanno seminato odio e distruzione in tutti gli angoli della terra, con il filantropico pretesto di esportare la civiltà, hanno deciso ora che il legittimo tentativo di un governo popolare (insomma, per lo meno eletto!) di scegliere la propria via allo sviluppo, legittimo non lo è per nulla.

Affrettiamoci subito a dire che non si può racchiudere tutto nella faccenda Gran Canal. Per quanto prioritario, non può essere paradigmatico di un modello di società che prende vita dalle inesauribili fonti del Novecento. Non sono un fan sfegatato dello sviluppismo e delle grandi opere, manco a dirlo.

Trovo però corretto e coerente mettere in discussione ma soprattutto mettere in guardia su modelli di sviluppo che qui da noi, nel paradiso delle democrazie occidentali, hanno provocato danni letali, legati a una concezione del “progresso” che non  teneva conto, non poteva tener conto delle mostruosità che portava invece dentro. Basterebbe citare Marghera e l’Ilva di Taranto.

Ma non possiamo applicare questo criterio a quanto si appresta a fare il governo sandinista con il Gran Canal, sarebbe una operazione intellettualmente e politicamente disonesta. Torneremmo alla pretesa di dover essere noi a decidere le sorti di un popolo che ha già deciso sul proprio futuro. Non dovremmo essere arbitri, ma giocatori in campo dalla parte giusta della partita.   Attenendoci al loro piano di fattibilità, tutte quelle mostruosità che dannatamente conosciamo fin troppo bene, vengono scongiurate. E lo rilevano anche studi che nulla hanno a che fare con la “propaganda sandinista”.

Non dobbiamo neanche nasconderci che un impatto ambientale ci sarà, è inevitabile. Non sarà delle dimensioni che la grancassa mediatica della destra locale e non solo intende far risuonare. E non sarà compito della solidarietà internazionale, come non lo è stato fino a ora, decidere sulla opportunità o meno di costruire il canale.

Una opera che, ricordiamolo, s’insegue da più di un secolo.

Nel III Encuentro Europeo si è discusso di questo e di tanto altro, è stata l’occasione di incontrare realtà provenienti dall’America Latina e da tutto il mondo, un momento di confronto vivace e propositivo.

Si è data continuità, per quanto in una sede “anomala” per un incontro europeo, agli appuntamenti precedenti di Arbúcies e Roma.

È stato l’epilogo o piuttosto l’apice di una Brigada Europea che ha contato sull’impegno solidale di 24 partecipanti, protagonisti e protagoniste anche nella due giorni dell’incontro.

Partecipazione, solidarietà, autodeterminazione, coscienza e consapevolezza. Sono queste le grandi opere a cui siamo chiamati a dare il nostro contributo, con spirito internazionalista e autonomia di giudizio.

Sono queste le nostre grandi opere del Sandinismo del Duemila.

M.A.