Honduras: Intervista a Raúl Álvarez detenuto politico

Honduras “Non mi hanno piegato e la lotta continua”

Intervista a Raúl Álvarez detenuto politico

Tegucigalpa, 30 agosto (Rel-UITA | LINyM)

Il 16 agosto è stato un giorno speciale per Raúl Álvarez. Dopo quasi 20 mesi rinchiuso in una prigione di massima sicurezza – di massima tortura direbbe Bertha Oliva del Cofadeh – il tribunale ha di fatto riconosciuto gli errori e le illegalità (intenzionali?) commesse nell’udienza preliminare e gli ha concesso misure alternative alla detenzione.

Nel gennaio dell’anno scorso, durante l’ondata di proteste seguita ai brogli elettorali che portarono alla riconferma di Juan Orlando Hernández alla presidenza, Raúl Álvarez e Edwin Espinal furono arrestati e accusati dei reati di incendio doloso e danni alla proprietà privata.

Entrambi potranno ora attendere l’inizio del processo da persone libere e chiedono con forza che anche a Rommel Herrera e Gustavo Cáceres, gli altri due detenuti politici arrestati in situazioni simili alla loro, siano concesse le stesse misure alternative.

Pochi giorni dopo il suo rilascio, Raúl, un ex poliziotto impegnato nella lotta per un Honduras migliore, ha conversato con La Rel y la LINyM.

-Cosa si prova a essere di nuovo libero?

-Non ci credevamo quasi più. Quello che è successo a partire dal nostro arresto, l’udienza preliminare e la decisione di rinchiuderci in un carcere di massima sicurezza, tutto quello che abbiamo sofferto in questi mesi, ci aveva tolto quasi tutte le speranze.

Quando ce l’hanno detto non ci potevamo credere. Sono felice perché ho potuto riabbracciare  la mia famiglia, i miei amici. Ed ora eccomi qui.

-Come sono stati questi 20 mesi?

-Sono stati duri, molto difficili. Dal momento della cattura e della nostra reclusione in quel carcere (La Tolva) abbiamo subito un trattamento crudele e disumano. Ci limitavano le visite  e ci siamo sentiti sempre in pericolo di vita. La violazione dei nostri diritti è stata costante.

Ma noi siamo abituati a combattere e quindi siamo riusciti ad allontanare le minacce, a proteggere le nostre vite e a uscire illesi da questo incubo. È comunque una vergogna che le autorità carcerarie non abbiano fatto nulla per proteggerci.

-Qual è stato il momento più difficile?

-Uno dei momenti più difficili è stato quello dopo la mia cattura, quando mi hanno presentato alla società come un pericoloso criminale, un ex poliziotto diventato terrorista. Ma quello che mi ha scosso nel profondo è aver perso mia figlia mentre ero in prigione. Mia moglie era incinta di quattro mesi e mezzo ed era una cosa che avevamo sempre desiderato.

Inoltre la mia casa è stata perquisita illegalmente dalla polizia e mia madre ha cominciato a stare male. Alla fine si è dovuta trasferire a San Pedro Sula e non ci siamo visti per molti mesi. Questa è solo una parte delle cose che mi ha tolto la dittatura.

-Ti sei mai sentito in pericolo?

-Continuamente. L’ambiente era molto ostile e ci minacciavano di continuo. Dicevano che eravamo della Resistenza e che per colpa nostra erano stati sospesi vari benefici, come per esempio le visite familiari e coniugali. Ci accusavano anche per i ritardi nell’approvazione del nuovo Codice penale che prevede la riduzioni di pena per vari delitti.

È stato grazie alla pressione a livello nazionale e internazionale se siamo riusciti a cambiare padiglione e a proteggerci da possibili attacchi.

-Perché senti di essere un detenuto politico?

-Quando ci fu il colpo di Stato io avevo 17 anni. Grazie alla mia famiglia ho potuto studiare e formarmi una coscienza sociale e politica. Per questo ho messo anima e corpo nella lotta contro il colpo di stato.

La necessità, non certo la vocazione, mi ha portato poi a entrare nelle fila della polizia. Avevo bisogno di un lavoro e quello ho trovato. Ci sono rimasto circa due anni, poi mi hanno buttato fuori, in modo illegale, durante la fase di ‘depurazione’.

Nel 2017 ho partecipato alle proteste contro i brogli elettorali e credo che il governo volesse “punirmi” per questo. A me e a Edwin (Espinal) ci hanno incriminato con l’obiettivo di mandare un segnale alle persone che tutti i giorni riempivano strade e piazze.

L’abbraccio della solidarietà

-Quando eravate in carcere vi arrivavano notizie sulla campagna per la vostra liberazione?

-Le nostre famiglie ci tenevano informati. Sapevamo che si era formato un comitato e che diversi settori, organizzazioni, sindacati e persino partiti politici si stavano mobilitando per la nostra liberazione.

Colgo l’occasione per ringraziare tutte queste persone che non ci hanno mai lasciati soli e che ora continuano a esigere la liberazione degli altri prigionieri politici.

Nonostante tutto quello che ho passato mi sento più forte e il governo non ha potuto piegarmi. Sono qui e ho ben chiaro perché e contro chi continuerò a combattere. Spero che il  processo serva a farci giustizia.

-Come sta Rommel?

-Con lo sciopero della fame siamo riusciti a farci spostare in un altro padiglione dove si sta meglio, ma per me non è stato facile andarmene. Quando mi hanno detto che sarei uscito ho provato diversi sentimenti ed emozioni: ero felice di essere nuovamente libero, ma anche molto triste perché lasciavo Rommel in quel posto da incubo.

Ora combatteremo con tutti gli altri per la sua libertà e per quella di Gustavo (Cáceres rinchiuso nel carcere di El Progreso ndr). La risoluzione del giudice servirà come precedente per far liberare anche loro.

di Giorgio Trucchi

Fonte: Rel-UITA