NICARAGUA: LEZIONI DAL 19 APRILE

Il Nicaragua sta sprofondando nel caos. Alle proteste iniziate il 19 aprile, la polizia ha risposto in maniera violenta e totalmente inadeguata. Un caos cavalcato e fomentato anche da settori i cui interessi non coincidono con il benessere del popolo. Tutto ciò ha portato alla drammatica logica del muro contro muro, alla diffusione di informazioni e notizie fuori controllo. La vera protesta è strumentalizzata con lo scopo evidente di approfittare della situazione per far saltare teste e governo e imporre nuovi rapporti di forza. La storia la fa il popolo, ma se il popolo diventa ostaggio di interessi altri la storia rischia di prendere una china pericolosa. Sebbene una parte delle proteste siano autentiche, la loro strumentalizzazione porta alla distruzione del paese. È quindi doveroso innanzitutto capire in modo approfondito cosa realmente stia succedendo, affinché il popolo non sia due volte vittima: della violenza e del neocolonialismo.
È necessario condannare la violenza da qualsiasi parte provenga e unirci al dolore di tutte quelle madri che hanno perso i loro figli durante gli scontri, facendo nostra la loro richiesta di giustizia.
Rischia di essere dannoso in modo definitivo quanto successo in Nicaragua, dal 19 aprile e per altri pochi lunghissimi giorni.

Per quanto sembrasse ristabilito un clima di “pace e riconciliazione”, continua questa inaspettata ondata di violenza che coinvolge l’intero paese.
Punto primo: davvero inaspettata?
Nella velocità, con la quale si è propagata, dall’annuncio della (famigerata, a questo punto) riforma dell’INSS, sicuramente. Una miccia cortissima seguita da una detonazione distruttiva. Il ruolo delle redes sociales e l’irresponsabile abbandono del tavolo di trattativa da parte del COSEP, hanno contribuito con altrettanta “efficacia” al propagarsi della protesta. Alimentata sostenuta e resa visibile dal protagonismo degli studenti. O almeno di una precisa parte di questi; quella principalmente legata a università private di stampo religioso.
Se è vero come è vero però, che pretesti perfetti siano stati un annuncio di riforma pensionistica e l’incendio nella riserva dell’Indio Maiz, lo sono altrettanto le condizioni non sufficientemente necessarie per determinare disordini di tale portata. In altre parole, il caos nelle strade è stato creato non (solo) per opporsi a una riforma, ma per ribaltare un governo. Può essere una distinzione di poco conto, in realtà non lo è affatto un un passaggio storico come quello attuale; in Nicaragua e in tutta l’America Latina. Quindi si era già in attesa della occasione “giusta” per provare a minare le fondamenta di una giunta democraticamente eletta pochi mesi addietro.

A questo tentativo, di chiaro stampo golpista – vale la pena dichiararlo subito – da tempo sta alacremente lavorando la oligarchia, privata della sua leadership, che ha accettato però di buon grado le proposte di collaborazione lanciategli dal 2006. Da quando cioè Daniel Ortega si è reinsediato di nuovo al potere. Una sinergia “anomala”, ma giocata con un rapporto di forze totalmente a favore della coalizione guidata dall’FSLN e, ripetiamo, legittimata da un indiscutibile consenso popolare nelle due tornate elettorali; una sinergia in nome dell’unanime proposito di sollevare il paese dalle sacche di povertà nelle quali era ulteriormente precipitato dopo sedici anni di neoliberismo sfrenato.
I cui solerti rappresentanti però, sono sempre sulla soglia dell’abbandono di qualsivoglia tipo di accordo, se dovessero ritenerlo utile alla salvaguardia dei propri interessi.
Che non coincidono mai, mai mai mai, con quelli delle classi subalterne.
Al contrario, sono utilissimi per sovrapporli mischiarli e confonderli fino a cavalcarne la protesta. Giusta e sacrosanta che sia. La sorpresa dunque, appare tale solo se si estrae un evento dalla dimensione storica e geopolitica nella quale accade, e dalla successione logica e temporale dei fattori che lo determinano. Managua, in questo caso, non si differenzia quasi per nulla da Caracas. Sarebbe però un errore fatale identificarne le vicende in chiave strettamente “ideologica”. Ossia affidare a una chiave di lettura interamente injerentista la valutazione di fatti e dinamiche interne alla dimensione reale del Nicaragua e di come il Sandinismo la integri. Nella sua espressione politica, economica, sociale e culturale.
Passiamo così al secondo punto: strategia ed egemonia dell’FSLN.

Sebbene non si possa ripercorrere, qui e ora, l’intera storia da Sandino fino ai nostri giorni, non possiamo neanche concentrare tutta la nostra attenzione sulla cronaca. Che racconta ovviamente di episodi tragici, ma non esaurisce la comprensione di una fenomenologia della contrapposizione che è simile in molti paesi, non solo dell’America Latina, ma ognuna con caratteristiche proprie. Per origine e provenienza come per ricerca di soluzioni e vie d’uscita dalla crisi.
Una crisi, nel caso del Nicaragua, sopraggiunta per una precisa strategia esterna, che analizzeremo in seguito, ma che manifesta nelle sue cause una evidente responsabilità della dirigenza sandinista. Sottolineiamo si stia parlando di responsabilità e non di colpe. Anche qui, la differenza può sembrare formale; in realtà è di contenuti.
Non metteremo in discussione gli enormi e indiscutibili successi conseguiti dal governo a guida sandinista dal 2006 in poi. Sono sotto gli occhi di tutt*, per chi vuol vedere. Riqualificazione del tessuto sociale in tutte le sue articolazioni.

Da quello urbanistico e di infrastrutture a quello molto più impegnativo dei diritti della popolazione, per passare nella condivisione incondizionata dei principi fondativi dell’ALBA.
Quindi in connessione permanente con le rivendicazioni storiche del sub-continente in tema di emancipazione e decolonizzazione. Un aspetto di certo non secondario, anzi prioritario, che non deve impedire di scrutare a fondo le contraddizioni in seno al campo sandinista.
La strategia comunicativa dell’FSLN, la modalità di intervento nella società nicaraguense, ha segnato un cambio di passo rispetto alle esperienze precedenti ma al contempo ha generato un clima di polarizzazione che è andato molto aldilà degli schieramenti classici dell’agone politico. Ha cioè creato una crepa tra l’accettazione per default di una linea politica e il legittimo diritto a metterla in discussione. Salvo passare per infiltrato, traditore, o peggio ancora, trotskista. La prosecuzione del proceso revolucionario giustificherebbe qualsiasi misura fatta in suo nome. Una posizione del tutto condivisibile se calata in uno scenario come quello degli anni 80.
Di continua aggressione militare, di embargo economico, di mortifera propaganda imperialista e terrorismo indiscriminato. Ora, non è più così. E non lo è soprattutto per la scelta consapevole di spogliare degli “orpelli” di quel periodo il nuovo abito dell’FSLN. Legato indissolubilmente alla sua storia ma aperto alle sfide che inevitabilmente la modernità propone. La riconquista dei settori popolari, straziati per quasi un ventennio da politiche liberticide e del tutto asservite alle volontà dei grandi organismi finanziari internazionali, che vedremo ora di nuovo alla ribalta, passa anche per alleanze disinvolte e compromessi “necessari”. Con forze politiche moderate e soprattutto con la Chiesa, che mai ha abdicato al proprio protagonismo. Una sorta di forche caudine comunque necessarie per suggellare una egemonia a tutti i livelli. 

Il continuo e reiterato appello alla riconciliazione e alla pace, finalizzato alla uscita definitiva dallo stato di diseguaglianza istituzionalizzata in cui versava il paese oramai da anni, è diventato un mantra al quale chiunque per qualsiasi motivo cercasse di sottrarsi sarebbe passato per nemico della Patria. O per eretico. In ogni caso, avverso e quindi ostacolo al nuovo corso intrapreso in nome di Sandino e di Dio.
Sintetizzato in una formula, il sandinismo del XXI secolo.

Malumori e voci dissonanti, per quanto immuni da germi controrivoluzionari, hanno finito per essere dispersi dal vento della realpolitik. Alla quale hanno opportunamente preso parte i fomentatori di questa artificiale rivoluzione arancione, che altrimenti sarebbero rimasti nello zero virgola di rappresentanza in cui sono stati rinchiusi da quella stessa parte di popolazione che adesso tentano di cooptare. Lanciano hashtag sovversivi e attendono denari e istruzioni da Washington. Ed è questo il nucleo centrale del terzo punto: golpe blando, ma pur sempre un golpe.
Non facciamoci illusioni: l’imperialismo è duro a morire, e si ripresenta sempre allo stesso modo sebbene con sembianze diverse. La ola progresista degli anni passati mostra le sue crepe. Per eventuali (e inevitabili) scelte sbagliate: legittimo.
Per ingerenza e sabotaggio esterno (altrettanto inevitabili): criminale. Il diritto internazionale, tra l’altro, si muove ormai con criteri a geometria variabile: esportazione della democrazia e abbattimento di dittature sono prerogative che cambiano a seconda della collocazione geografica e molto  più per opportunismo economico. Ciò che vale per il Venezuela non è valido per Israele. E viceversa. Così va il mondo nella concezione autocratica del dominio.
A questa logica non sfugge certo il Nicaragua. Nonostante la sua storia recente parli di riscatto sociale senza evocare spauracchi da guerra fredda, piuttosto che la ricerca a tutti i costi di un conflitto in stile novecentesco. Al contrario, la evocazione di un totalitarismo di stampo sovietico conviene sempre alla propaganda reazionaria, precisamente per giustificare un intervento da oltre confine.

Ciò che veniva taciuto ai tempi della divisione del mondo in due blocchi, ma realizzato in reciproco ossequio alla pax tra le due superpotenze, viene ora abilmente sbandierato sui social network per seminare ignoranza e odio.
Che molte volte impiegano poco tempo a trasformarsi in violenza indiscriminata. Agevolata da una speculare e “tradizionale” incapacità di contrastare questi veri e propri armamenti che sono i mass media, con una sana e partigiana attività di informazione. La propaganda, quale che sia la provenienza, non fa parte di questo ambito, è tutt’altra cosa e riguarda tutt’al più le strategie di comunicazione. Il coinvolgimento e l’utilizzo dei colossi dei media sono spesso la testa di ariete per sfondare il muro del consenso e assicurarsi un terreno agevole per l’esecuzione di pratiche golpiste. Il Brasile di Lula, senza andare  troppo a ritroso nel tempo, sta drammaticamente lì a dimostrarlo.
In Nicaragua, la riforma delle pensioni, pervicacemente pretesa dall’FMI, andava a ristabilire per lo meno un principio di equità fiscale evitando di toccare l’età e le fasce più deboli, innalzando i contributi delle imprese. Potremmo chiaramente passare ore giorni settimane a discutere dell’opportunità o meno di accettare il diktat, sotto forma di richieste, degli organismi finanziari; di fatto, ciò è bastato per scatenare l’inferno. Scontri e barricate nelle strade e nelle università, con gli imprenditori che fino a qualche minuto prima civettavano con il governo per poi esortare i propri dipendenti a scendere in piazza contro la dittatura orteguista. Un qualcosa di nuovo e al tempo stesso un déjà vu di un terrore invocato e finalmente arrivato. La guarimba anche a Managua Leon Masaya ed Esteli, con le armi improvvisate e le modeste vesti di una parte di popolo che forse, forse e ancora forse, avrà anche immaginato di poter godere del sacro diritto a manifestare, garantito dalla costituzione, senza rendersi conto però delle spesse redini che lo stavano cavalcando. Al comodo riparo di sassaiole fumogeni e proiettili, la classe che da sempre ne sfrutta un’altra, in fabbrica sull’aratro e nei campi di battaglia, tira le somme di questo insperato caos e gli occhi cominciano a brillare.

Puoi anche cambiare nome al socialismo, impreziosirlo o aggiornarlo in tutte le sue possibili realizzazioni. È il capitalismo a rimanere sempre uguale a sé stesso, che si presenti con l’altezzosità del doppiopetto o con gli abiti dimessi della povertà. Alla luce di tutto ciò, il quarto punto dovrebbe affrontare un tema fondamentale: va tutto bene da questa parte, è tutta colpa dell’imperialismo?
No. Ed è sulla scorta di questa consapevolezza, se minimamente condivisa, che dovremmo riflettere per capire e capire per agire. Per evitare riflessi incondizionati di strenua resistenza ideologica che pure vanno esercitati perché il nemico è il nemico di sempre. Senza ambiguità e senza tentennamenti.
Se però la sua individuazione è chiara così come il suo palesamento, meno lo è la coscienza rispetto al riconoscimento dei propri errori quando non delle proprie mostruosità.
I fatti del 19 aprile e dei giorni successivi sono di un enorme significato sociale e politico, ma portano con sé anche il segno indelebile della tragedia: decine di vittime e centinaia di feriti. Un saldo che l’accanimento dello scontro impedisce addirittura di verificare. Si va dalla decina a più di cento, come se la vita umana in certi frangenti si riduca davvero a una guerra di cifre. La riforma dell’INSS è stato un pretesto per scatenare disordini; alle forze preposte a contenerli è sfuggito il controllo della situazione. Non sono due assiomi ma dati di fatto. E sono ambedue effetti di una politica discutibile. E ne dobbiamo discutere senza timore di mettere in discussione i punti fermi del processo rivoluzionario e del sostegno che a esso dedichiamo.
Così come è disonesto estrapolare un episodio dal contesto in cui avviene per denunciarne l’aspetto criminale e golpista, allo stesso modo va considerata la risposta del governo sandinista. Al netto della indiscutibile preoccupazione di veder avverarsi una deriva di tipo venezuelano. La gestione Rosario Murillo è stata caratterizzata, per dirla senza mezzi termini, dall’autoritarismo. La incapacità di saper leggere il malcontento che si stava materializzando in quei giorni; di ascoltare le voci sincere di quel movimento di protesta, anche alla luce di quanto avvenuto nel complicato scenario latinoamericano, ha indubbiamente contribuito ad amplificare il risentimento popolare.

Una china che va avanti da diverso tempo, “nascosta” tra le pieghe della protezione a tutti i costi. Occorre quindi che le forze sane e coscienti all’interno della realtà sandinista, spingano per una seria riflessione al loro interno e ristabiliscano un principio di qualità rivoluzionaria, valorizzando le conquiste fin qui fatte e annientando i germi della corruzione e dell’elitarismo.

E s’impegnino soprattutto per arginare qualsiasi proposito di autoritarismo, che nulla ha a che fare con l’autorevolezza, ancor di più quando questa gli viene affidata dal popolo. Un aspetto della società che è molto più di una percentuale alle urne.
In questo momento di totale confusione, seppur riconoscendone evidenti limiti e contraddizioni, l’azione più urgente prima di una totale degenerazione, sia quella di sostenere il dialogo.
Il dialogo, continuamente minato dall’interno e dall’esterno, si presenta come l’unico elemento possa riportare un minimo di stabilità nel paese che permetta così di compiere alcuni passi fondamentali. Passi difficili ma necessari, anche perché l’alternativa rischia di essere un salto all’indietro di molti anni. Tali da diventare poi irrecuperabili.

Tuttavia, impossibile tornare allo stato di cose precedente. Stiamo già vedendo come il “caos” viene strumentalizzato e sfruttato anche a livello internazionale. Diventa quindi imprescindibile bloccare il gioco al massacro che è in atto, riportare la crisi al tavolo e fermare tutti quei settori del paese che puntano sfacciatamente al tanto peggio tanto meglio per abbattere il governo. Bisogna inchiodare alle proprie responsabilità chi fa appello alla pace e al dialogo ma poi, dalle retrovie, contribuisce alla destabilizzazione.
Allo stesso tempo, è imprescindibile una seria e approfondita autocritica, quando non una vera e propria “resa dei conti”, all’interno dell’FSLN. A tempo debito ma in tempi brevi, per evitare una tracimazione che porterebbe alla perdita di diritti e sovranità. Nonché delle indiscutibili conquiste che ci sono state in questi anni.     
Se non si approfitta – termine questo orribile ma in questo caso opportuno – ora di questa tragedia per recuperare un terreno altrimenti irrimediabilmente perso, le incrinature sul muro della democrazia rischiano di trasformarsi in macerie. Sulle quali torneranno, a infiocchettare futuri impossibili con i disastri del passato, i soliti professionisti dell’ancien regime. Gli specialisti della sopraffazione.

A questo difficile compito siamo chiamati anche noi, questo è sicuro.

Il dubbio è se ne avremo la forza.

 

Coordinamento Associazione Italia Nicaragua

7 Giugno 2018